Violenza di genere e tutela penale. Problematiche e prospettive
Gian Marco Caletti, qual è la situazione italiana dal punto di vista della tutela legale delle vittime di violenza di genere?
Ne parlerò nel corso del mio intervento. In Italia sono stati senza dubbio fatti alcuni passi in avanti negli ultimi anni: pensiamo al recentissimo ddl Roccella o al Codice Rosso del 2019, che hanno introdotto nuovi strumenti preventivi e potenziato molti aspetti processuali (ad es., in relazione a certi reati il PM è tenuto a sentire la vittima entro tre giorni dalla denuncia). Tuttavia ci sono ancora delle criticità che andrebbero affrontate.
A cosa si riferisce?
Al fatto che, a fronte di questi interventi normativi, al centro del sistema penale rimangono fattispecie di reato decisamente antiquate. Basti pensare al delitto di violenza sessuale, la cui struttura ancora incentrata sul concetto di costrizione violenta risale in larga misura al codice Zanardelli del 1889. In tanti altri Paesi il reato è stato da tempo (Inghilterra, Canada, alcuni Stati americani), o recentemente (Spagna e Germania), oggetto di riforme in senso consensualistico: è la presenza o meno del consenso a segnare il confine tra un atto sessuale lecito ed un illecito, a prescindere dall’impiego di modalità violente o di minacce. In Italia, per il momento, sono state le sentenze della Corte di Cassazione a farsi carico delle crescenti istanze di tutela dell’autodeterminazione sessuale e a riformare silenziosamente il reato, arrivando a ritenere oggi sufficiente per la configurazione della violenza sessuale che la persona non abbia espresso un consenso prima dell’atto sessuale. Vi è quindi un’enorme distanza tra la legge scritta e la legge per come viene interpretata e applicata.
Perché ritiene che questo sviluppo sia problematico? L’importante non è che la fattispecie di reato venga riconosciuta e punita?
Fermo un evidente problema di separazione dei poteri dello Stato (certe decisioni di politica criminale spettano al legislatore), ci sono anche conseguenze tangibili da tenere presenti. Una è la scarsa conoscibilità effettiva del reato. In assenza di una riforma, che – ce lo confermano le esperienze straniere che menzionavo prima – avrebbe aperto un ampio dibattito pubblico, le persone non conoscono i contorni esatti del reato e, anzi, tendono naturalmente ad associare la rilevanza penale solo a condotte violente. Del resto, è da quasi due secoli che impieghiamo la parola “violenza” per descrivere il delitto. Ciò comporta, da un lato, che molti autori non si rendono neppure conto fino in fondo di aver realizzato un abuso sessuale, e, dall’altra molte vittime non sanno di essere state vittime di tale abuso. E non a caso c’è ancora una cifra oscura di casi non denunciati notevolissima. La seconda problematica attiene al fatto che, spesso, i Tribunali di merito non si allineano alle indicazioni della Cassazione, applicando la legge scritta o riesumando stereotipi sessisti o antichi miti dello stupro per ricostruire la presenza del consenso. I
Esiste poi il problema delle molestie sessuali. Come vengono perseguite?
Nel ’96, in occasione della storica riforma dei reati sessuali propugnata dai movimenti femministi, il legislatore ha unificato due tipologie di incriminazione molto diverse, come la violenza carnale (che richiedeva un atto penetrativo) e gli atti di libidine, senza tuttavia introdurre un apposito reato per le molestie sessuali. L’idea era quella di affrancarsi dal concetto di penetrazione e riconoscere la gravità anche di altre forme di abuso. Oggi dunque abbiamo un unico reato, nel quale confluiscono, sotto il generico concetto di “atti sessuali”, condotte eterogenee come uno stupro violento e una “pacca” sul sedere e siamo l’unico Paese al mondo che non prevede fattispecie (e pene) differenziate per ipotesi così diverse. Oltretutto, sfuggono poi dalla norma tutte le ipotesi di molestie sprovviste di una ricaduta corporea, anche le più gravi.
Parlerà anche delle forme digitali della violenza di genere?
Senz’altro. Ho proseguito le mie ricerche nel solco tracciato dal progetto unibz Creep, coordinato dalla prof.ssa Kolis Summerer. È vero che, come noto, è stata introdotta nel codice penale (all’art. 612-ter) una apposita incriminazione per la diffusione di immagini sessualmente esplicite, ma la nostra legislazione continua a non essere, sotto molti profili, al passo coi tempi.
(zil)