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La violenza di genere spiegata dall’antropologia

Intervista con la ricercatrice Marina Della Rocca che domani, nel campus di Bressanone (A2.24), terrà una lezione aperta nell’ambito della rassegna “No more violence against women”.

Marina Della Rocca, quali saranno i temi al centro della Sua lezione di domani 29 novembre, nel campus di Bressanone?

Comincerò dalle definizioni di che cos’è la violenza di genere, cercando quindi di spiegare come la prospettiva antropologica ne spieghi le radici storiche. Passerò poi ad analizzare in che modo la categoria “genere” è stata interpretata e letta dall’antropologia.

Questo perché la categoria di genere non è una categoria assoluta ma soggetta alle pratiche culturali specifiche di una popolazione?

Esatto. Fondamentalmente l’antropologia a contribuito a far comprendere che il genere non è inscindibilmente legato al sesso biologico ma è una costruzione sociale. Le diverse definizioni di femminilità e maschilità possono cambiare a seconda anche delle culture che si prendono in esame ma rimane diffuso il dominio del genere maschile sul genere femminile, proprio per i ruoli all’interno delle diverse società, specialmente in relazione al ruolo riproduttivo delle donne.

Qual è la forma di violenza sulle donne più diffusa?

È quella nei confronti delle mogli e delle compagne. E si tratta di un dato confermato anche da organizzazioni nazionali e internazionali. Quindi la violenza domestica, che si consuma nelle relazioni di prossimità.

Ci sono culture che sono più esposte a questo tipo di violenza?

In passato le ricerche antropologiche hanno evidenziato una tolleranza più o meno forte della violenza sulle donne in diversi contesti culturali. Spesso veniva interpretata come comportamento correttivo di un comportamento sbagliato. Non molti anni fa riguardava anche l’Italia. Fino al 1956 nella legge italiana esisteva lo jus corrigendi che permetteva di uomini di punire anche fisicamente figli e moglie al fine di educarli. Sembra incredibile a dirlo oggi ma allora non faceva scandalo, era in sintonia con i codici morali del tempo. Quindi non stiamo parlando solo di culture altre, nel senso di culture “non occidentali”, stiamo parlando di culture in generale, in cui anche la nostra rientra.

Dove si rintracciano le origini della violenza di genere?

Secondo la prospettiva antropologica sono legate fondamentalmente al bisogno del controllo della fecondità e sessualità femminile, che di fatto è confermato anche dai codici morali a cui sono sottoposte le donne, nella maggior parte dei posti del mondo. Pensiamo a come vengono viste la sessualità e il corpo della donna e agli atteggiamenti colpevolizzanti nei confronti del suo comportamento, anche al giorno d’oggi. Penso, ad esempio, ad alcuni processi, anche in relazione a violenze sessuali, dove è stato svolto uno scrutinio del comportamento morale della donna. Questo fa parte di un retaggio che sta alle origini della violenza di genere.

Parlerà anche del contesto culturale italiano?

Sì, racconterò le tappe in cui sono cambiate la società italiana e la condizione delle donne, almeno dal punto di vista legale: dal diritto di voto, alle leggi sul divorzio e l’aborto fino all’abolizione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore, senza dimenticare l’introduzione del codice di famiglia del 1975, che ha sancito la parità dell’uomo e della donna all’interno della famiglia.

Lei si occupa di violenza di genere nei contesti di migrazione. Illustrerà anche alcune sue ricerche?

Leggerò alcune frasi di donne vittime di violenza che ho intervistato per i miei studi per far capire quali siano i loro vissuti e per gettare uno sguardo sull’intersezione tra violenza e processi migratori.

(zil)